Al “Simposio dell’ozio creativo”, organizzato dal “Mediterraneo Video Festival”, non potevo assolutamente mancare, così ho deciso di trascorrere una giornata di settembre non al mare, ma a Terradura, frazione di Ascea, situata nella fascia collinare più alta, a 5 km dal Capoluogo.
Terradura è immersa in un bosco sorprendente, di una bellezza straniante, non un bosco di querce, nè di frassini, di aceri o di tigli, ma di ulivi superbi e maestosi del cultivar pisciottano, dai rami come chiome spettinatissime, tronchi come toraci che ansimano, radici come piedi di saggio ben piantati nella terra, e quasi parlanti.
Sembrano osservarti questi ulivi e a tratti incutono soggezione.
Gli tributeresti un saluto, un rispettoso inchino, visto che sono loro i veri centenari, anzi i pluricentenari del Cilento. Avresti quasi voglia di abbracciarli, di interrogarli, di chiedergli come abbiamo fatto a perdere il sentimento primigenio di appartenenza alla terra, ai suoi valori. A Terradura sono arrivata per una breve sosta, invece vi sono rimasta per molte ore.
Ho calpestato a piedi nudi una terra antica, ne ho intercettato il calore che mi ha dato energia, ho annusato il profumo intenso dell’erba che i nostri passi hanno sgualcito. Con persone meravigliose è stata innalzata una preghiera laica alla Natura, e al Pane, preghiera che, quasi come in un miracolo, ha armonizzato e accordato francescanamente tutti i convenuti al simposio.
Ho partecipato con gli altri al rito sacro della panificazione, all’impasto eseguito lentamente, con gestualità religiosa, mentre Renata pizzicava le corde di un singolare, antico strumento musicale indiano, che non a caso si chiama “ruba il cuore”, perché ti rapisce come fosse un amante appassionato. L’ impasto nella madia sembrava respirasse ed emettesse anche lui una melodia, un suono che, come ho appreso oggi da Donatella, se sappiamo ascoltarlo, possiamo trovarlo in ogni gesto della nostra quotidianità, a patto che lo eseguiamo con pazienza e amore.
L’ impasto ormai pronto, è stato portato in spalla, come fosse il santo patrono nella processione del paese e deposto, affinché lievitasse, ai piedi dell’altare della chiesetta di San Michele Arcangelo, alla stregua di una reliquia, o di una cosa a cui teniamo caramente. Mi è parso questo un grande atto d’amore, antico e commovente, eterno, perché il pane è simbolo fortemente iconico, che accomuna ogni civiltà, ogni paese, ogni religione, dalla notte dei tempi ai giorni nostri, da questa sponda e dall’altra del nostro Mediterraneo, la rappresentazione tangibile che più di ogni altra ci restituisce il significato di essere uomini, e uguali, senza distinzione di razza o religione. A Terradura ho ascoltato voci, di scienziati, di letterati, di uomini che lavorano la terra, che panificano, e poi le note dei musicisti, le parole di viaggiatori estasiati dalla nostra terra antica, che è del mito, della filosofia, delle origini del pensiero occidentale e che perciò appartiene a tutta l’umanità, ed è conosciuta nel mondo perché ha elevato il cibo a sistema di vita, a metodo della longevità, a occasione di socialità, di religiosità, a contrassegno di appartenenza ad un sistema di valori intorno a cui ruota la famiglia, il duro lavoro, il rispetto per gli anziani. Ogni voce a Terradura, nella giornata del “Simposio dell’ozio creativo”, è stata armonia: nessuno ha avuto fretta, nessuno ha prevaricato o contestato.
Tutti si sono riscoperti un po’ greci, più volte si è parlato di ξενία, del patto di ospitalità e dei rapporti sacri tra ospite e ospitante, patto che ci è giunto da lontano e che nella sostanza ci caratterizza e connatura come cilentani.
In questo spirito conviviale è giunto, cucinato e portato da donne del paese, vestali di antiche tradizioni, il cibo, suggello dell’incontro conviviale. Sono state servite vivande buonissime che avrebbero ricevuto il plauso e l’approvazione del rigoroso Ancel Keys che per primo in questi luoghi rintracció nelle stille d’olio, negli omega 3 del pesce azzurro, nelle proprietà anti infiammatorie e antiossidanti degli ortaggi, l’elisir di lunga vita.
Essere ospitali, vivere la religiosità come i greci, computare il tempo come καιρός, ovvero non nella sua natura quantitativa ma in quella qualitativa, assumere il cibo come fosse la medicina del corpo e dell’anima, la sociabilità, sentirsi parte attiva di una comunità:
è tutto qui, racchiuso in queste prescrizioni, il metodo per vivere bene ed essere davvero cilentani.
Mariella Marchetti