Riprendiamo per Zoneblu un bellissimo articolo ” Lo Scammaro” che ci ha inviato Fabrizio Mangoni* pubblicato su Mondo Mangiare.
Nel suo libro il Cavalcanti la chiama semplicemente “Frettata de vermicelle” ma a Napoli da quegli anni in poi è stata sempre chiamata “Frittata di Scammaro”.
Perché? Il termine Scammaro ha origini monastiche. Nei Monasteri, durante il periodo di Quaresima, i Monaci che per motivi di salute potevano derogare alla cucina di magro mangiando carne. Per mangiare la carne, però, dovevano consumare in camera lontano dagli occhi degli altri monaci. N.d.R.
Le parole ci restituiscono l’equilibrio tra contenuto scivoloso e superficie croccante di uno dei capolavori della cucina popolare napoletana. Abbiamo tre momenti della preparazione; i vermicelli (poco più di due chili e mezzo) bolliti e scolati al dente (teniente, teniente), sono versati in una scodella (il Tiano), ma mescolati ad un po’ d’olio (poco più di un cucchiaio) precedentemente soffritto e insaporito da un paio di alici dissalate e pepe. Poi si prende una metà dei vermicelli e la si versa in una padella (la Tiella), mettendoci sopra come un’imbottitura, olive dissossate, alici dissalate, uva passa e pinoli. Alla fine si ricopre con l’altra metà dei vermicelli e la si frigge da entrambi i lati nell’olio o nella sugna.
La ricetta è descritta nel Manuale di cucina teorico pratica di Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino. Questo nobile napoletano, che annovera tra i suoi avi il famoso Guido Cavalcanti poeta e amico di Dante, scrive nel 1837 un suo manuale di cucina, che avrà ben 10 edizioni. A partire dalla seconda inserirà un capitolo di ricette caserecce in lingua napoletana, aggiungendo ad ogni edizione nuove preparazioni. Questa frittata di vermicelli appare in una delle edizioni successive, e sarà nota col nome di Frittata di Scammaro. La parola Scammaro nel Regno delle due Sicilie, identificava i giorni e i pasti di magro. Sembra che il termine derivasse da una pratica conventuale; nei giorni di magro, alcuni frati potevano essere dispensati per motivi di salute dal rispetto dell’astinenza dalla carne. Per non turbare gli altri venivano serviti nella loro “Cammera”. Si conseguenza la S privativa accompagnerà il mangiare di Scammara, o Scammaro. Forse proprio il Duca potrebbe avere inventato il piatto per un convento. D’altra parte, la grande dimensione della frittata proposta dalla ricetta, la fa immaginare destinata ad un grande numero di commensali. In pratica si tratta di una frittata di maccheroni senza uova, quindi assolutamente di magro. Ora spesso la frittata risolve il problema del riuso degli avanzi, come la frittata di maccheroni, ma questo è un piatto non “derivato”, ma esplicitamente perseguito. Notate il doppio uso dell’alice dissalata: in un primo momento è aggiunta e dissolta nell’olio soffritto con cui si ungono i vermicelli, e poi viene mescolata anche a pezzetti a ribadirne il sapore forte in una sorta di sinfonia di gusti e sensazioni gustative; abbiamo il dolce dell’uvetta, l’amaro dell’oliva, il croccante dei pinoli. Ma di quali olive parliamo? Quelle verdi e grosse o quelle piccole e nere di Gaeta? In alcune famiglie si usano entrambe, con l’attenzione di aggiungerle in momenti diversi della cottura del condimento. L’oliva nera, messa troppo presto, rischia di tingere di scuro il candore dei vermicelli. Ma la vera attenzione va posta alla creazione della crosta. In pratica occorre evitare che la crosta si attacchi o che bruci, o che sia troppo oleosa. Quindi padella appena unta, e movimento attento per controllare che la pasta si muova sul fondo. Intanto bisogna compattare continuamente il bordo riportando sui lati i vermicelli ribelli. Quando si ritiene che si sia raggiunta il giusto grado di frittura della superficie, si gira la frittata e si cuoce l’altro lato. La superfice della Frittata di Scammaro è un piacere dello sguardo. Viene da pensare alle origini dell’Universo: un insieme caotico di fili, di scie, di spirali dorate e luccicanti, alloggiano frammenti di olive risalite (o ridiscese) dal cuore della frittata alla superficie, gemme ambrate di uvetta appena annerite dalla cottura o perle bianche di pinoli. L’unico problema è che la frittata è difficile da dividere. A meno di non avere un bisturi, lo Scammaro non si presta al taglio della fetta. Ma è qui un altro elemento del suo fascino. Si sfrangia nel servirla e ognuno si ritrova un po’ di crosta informe e un po’ di morbido contenuto, dove l’oliva, il chicco di uvetta, il pinolo o il pezzetto di alice, conquistano nel piatto il loro angolo di libertà, e vanno raccolti dalla forchetta insieme alla pasta.
A proposito di Croccanza, Ippolito Cavalcanti ci dà un importante suggerimento: “quanno I’aje mbrogliate e asciuttate”. Ci propone di fare asciugare un po’ la pasta scolata. Questo probabilmente consente un deposito di amido intorno ai vermicelli che facilita la formazione della crosta e limita i rischi del loro “azzeccamento” alla padella. Una delle soluzioni per limitare lo sfrangiamento eccessivo della pasta durante la porzionatura, è lo Scammaro individuale. Quando andavamo al mare, la nostra cuoca Anna lo preparava per me e per i miei fratelli. Ognuno aveva il suo dischetto di Scammaro avvolto nella carta argentata. Negli anni ’60 mio zio Ettore, famoso regista di teatro e cinema, aveva uno dei primi motoscafi Riva. Mi piaceva molto quella barca che assomigliava ad un’automobile, col volante bianco, i divani di cuoio e quel legno brillante color mogano. Quando ci invitava a fare un bagno, lo Scammaro era il suo terrore. La possibilità di macchiare i sedili era una certezza. Ci invitava allora a mangiarlo rigorosamente appoggiati fuori dal bordo del motoscafo. Il mare rifletteva il mio volto con la frittata tra le mani. Ogni tanto qualche frammento di pasta cadeva e fluttuava nell’acqua, fin quando un lampo argentato di un pesce non lo faceva suo. Ero felice.