di Ida Budetta*
Si illude chi crede di possedere un luogo.
I luoghi non ci appartengono, ci chiamano e ci ospitano. A volte diventano tana, a volte nasce un sodalizio animico che produce ispirazione, vita, salute, benessere e meraviglia. A volte un luogo diventa grembo e ci accoglie e cura. Che ne siamo consapevoli o meno, l’influenza che un luogo produce sulla qualità della nostra vita è decisiva. Vivo nel Cilento da più di vent’anni.
Mi sento un po’ nomade, il desiderio di indagare il mondo mi accompagna da sempre, ma se c’è un luogo che mi parla, mi seduce e mi trattiene e continua ad offrirmi emozioni è questo dove sono. Il toponimo è quasi sicuramente derivato dal fiume Alento (cis-Alentum), ma un nuovo intrigante studio lo collega invece a Cilens, divinità etrusca, deputata ad accompagnare i passaggi tra ombra-luce, giorno-notte, restituendo a questo luogo un’essenza femminile, che, nell’abbondanza delle sue espressioni naturali, nella fertilità della terra e nei colori spettacolari, che proprio nei momenti di passaggio (crepuscolo, alba, tramonto) ti connettono al divino, era già esplicita.
Il nome però contiene un aggettivo importante, chiaro indizio del modo in cui si muovono le poderose energie che gli appartengono e che è la chiave per comprenderne storia e cultura: lento.
La lentezza, l’ingrediente magico che dilata il tempo e lo sviluppa in larghezza arricchendolo, che ci consente la contemplazione, la connessione col qui ed ora, la concentrazione nelle piccole attività quotidiane, che scandiscono la nostra natura umana ed animale, a contatto con i ritmi della terra, con i nostri reali bisogni, con l’ascolto ed il rispetto che si deve ad una madre. ‘Globalizzazione’ e ‘consumismo’, due sostantivi che definiscono il sistema all’interno del quale ci ritroviamo immersi. Il modello che ci è propinato dall’economia e che diventa un condizionamento, al quale ci siamo assuefatti nell’approccio alla vita. Due termini che vanno nella direzione opposta alla ‘lentezza’. Frenetici nella corsa alla produttività (intesa come quantità, non qualità), alla creazione di sovrastrutture barocche che soddisfino apparentemente bisogni fittizi, che ci allontanino dalle identità, dalle radici, dalla storia, dal nostro centro, per consumare e consumarci in attività che ci defraudano del senso della vita, che ci alienano, e tolgono valore a tutto.Il consumismo ha modificato il modo in cui percepiamo il nostro corpo ed il suo benessere. Ha addirittura modificato l’evoluzione della medicina occidentale, che è diventata talmente specialistica, da perdere l’aspetto organico ed integrale che gli sono propri. Come se ogni nostro apparato non dipendesse dal corretto funzionamento e benessere psico/fisico nella totalità ed il dolore fosse uno scomodo aspetto da eliminare, talvolta senza ricercarne o senza capirne la causa e rifiutando l’avvertimento che si porta dietro. Il 2020 è stato un anno che ci ha messo alle strette. Ci ha costretto a prendere coscienza della nostra ’vulnerabilità’. Per la prima volta la mia generazione, coccolata ed intorpidita dalle comodità e dalla apparente stabilità che ci vuole amorfi nella nostra zona di comfort, s’è trovata di fronte ad un imprevisto, dalle conseguenze drastiche ed incisive nel vivere quotidiano. In alcune zone del mondo, comprese alcune nostre regioni, si è consumata una vera e propria tragedia, che ha scioccato e segnato nel profondo le persone, riportando l’attenzione sulla morte (tabù dei nostri giorni) come aspetto doloroso della vita e sua parte integrante. In altre zone del mondo tutto ciò però non è avvenuto, in barba alla globalizazzione! A quanto pare, l’odioso, subdolo nemico, SARS-CoV-2, non ama il consumismo, sceglie con cura i luoghi ed organismi da aggredire. Muta, sfugge alle cure e le informazioni non sono mai tali da riuscire a circoscriverlo e definirlo (non come il ben noto cancro, che si diffonde con garbo, ci fa compagnia da tanti anni e, finchè non ce lo prendiamo noi, tutto sommato non ci riguarda). Un nemico che ci lascia nell’incertezza e quindi nell’ansia, se non nel panico. La quarantena, un’esperienza che mai avremmo immaginato di fare.
Un’esperienza forte anche per chi della ricerca interiore fa il suo cammino. Ci ha costretto a riconsiderare gli spazi, ci ha costretto a ‘stare’ (più che a ‘fare’, nell’accezione a cui siamo abituati) con noi stessi, con i nostri figli, con il partner. Ci ha costretti al tempo lento. Per tanti è stata un’esperienza traumatica, comprensibilmente per chi si è gravemente ammalato, per chi ha perso, in malo modo e senza dignità, gli affetti più cari, ma anche per tanti altri, non coinvolti direttamente.Avrebbe potuto essere un periodo nel quale prenderci cura di noi, rafforzare e strutturare i legami con le nostre famiglie, ascoltare, ascoltarci, condividere, comunicare. E per alcuni lo è stato, ne sentivano il bisogno ed hanno colto un’opportunità. Chi aveva del verde attorno casa ha riconsiderato il beneficio che procura, chi viveva in un condominio ha compreso il valore dello spazio all’aperto. Qualcuno ha migliorato il proprio modo di alimentarsi, ha cominciato a prestare più attenzione alla propria forma fisica, ci si è responsabilizzati rispetto al proprio stato di salute. Per altri è stato l’esatto opposto, ci si è lasciati andare e prendere dallo sconforto, nutriti dalle cattive notizie che quotidianamente le TV forniva, dall’ansia e dal terrore, rafforzati probabilmente da quel terrore ben più grande di poter incontrare il proprio vuoto interiore. Rispetto a quest’esperienza, una società globalizzata e consumistica fornisce risposte di questo stampo, ricerca soluzioni di questo stampo, quindi un vaccino universale che stronchi l’aggressore e salvi dal pericolo i nostri corpi immunodepressi, da propinare a tutti, anche a coloro che hanno un sistema immunitario forte, resistente ed ai quali il virus non nuoce (i naturalmente immuni o gli asintomatici), in questo mondo alla rovescia, guardati con biasimo, quasi fossero ‘i nuovi mostri’. Peccato che il virus non risponda a queste logiche e quindi la realizzazione del vaccino sia stata particolarmente complicata, che i tempi debbano necessariamente essere lunghi, che nel frattempo potrebbe svilupparsi un nuovo e diverso virus, che il nostro già alienato stile di vita richieda a tutti misure di salvaguardia che ci immunodeprimono ancora di più, che ci privano del contatto umano, fisico, a cominciare dall’infanzia, laddove è una necessità inalienabile. Basterebbe osservare e consapevolizzare per avere un approccio più corretto al problema, un approccio che ci responsabilizzi rispetto alla nostra salute ed al nostro benessere in generale. Occorre riconsiderare il nostro ruolo rispetto all’ambiente che ci circonda, rispetto agli altri esseri viventi, umani e non, rispetto al modo in cui vogliamo vivere la nostra vita.
Ripartiamo dall’inizio del mio articolo, dai luoghi e dalla lentezza. Dal comprendere che siamo ospiti su un pianeta che ci ha offerto l’habitat ideale per lo sviluppo armonico della nostra specie. Che più ci allontaniamo dalle nostre radici, dal nostro centro, dalla bellezza, dalla pulizia, dall’essenzialità del nostro essere parte della natura, più ci ammaliamo nell’anima e nel corpo. Le Zone Blu nel mondo sono solo un esempio di come potrebbe essere ovunque. Un incontro tra luoghi e persone. Di solito aree poco inquinate, con piccoli borghi, dove si coltivano ancora orti, si produce almeno una parte del proprio cibo e gli si attribuisce valore, perché è proprio così: siamo ciò che mangiamo.Zone dove si adotta uno stile di vita semplice e sereno, scandito dalle attività quotidiane, poco produttive in termini di economia globale, ma di sicuro ricche di vita. Zone dove il fattore umano è fondamentale, dove ognuno contribuisce con la sua individualità, con le sue capacità, con i suoi mestieri e con le sue arti a costruire la comunità. Zone dove l’anzianità, con l’esperienza di vita che ne deriva, è considerata non un peso ma una risorsa, dove diventa auspicabile invecchiare perché si diventa pluricentenari per il piacere che si ha di vivere.In queste Zone il tempo scorre in lungo ed in largo, si vive di più e bene, le malattie hanno un’incidenza nettamente inferiore ed il Covid non attecchisce. Sono i luoghi che non si posseggono, ma ai quali scegliamo di appartenere.
* Ida Budetta, 48 anni, avvocato.
Dal 1999 lascia la città per vivere nel Cilento, a Punta Tresino, isola sulla terra, incontaminata e selvaggia, zona protetta del Parco Marino di Castellabate (SA), luogo dell’anima e fonte d’ispirazione. Da diversi anni si dedica all’accoglienza, alla valorizzazione ed alla narrazione del territorio, organizzando e conducendo degustazioni nell’azienda vitivinicola San Giovanni, per portare avanti un progetto di vita comune a contatto ed in sinergia con la natura. Tra le sue passioni la scrittura con uno sguardo che mira ad andare oltre.