Una domenica a Castelnuovo Cilento, per ritrovare il paese di vita, almeno in gran parte qui trascorsa, di un artista unico e sorprendente. È un’emozione rivedere le sue sculture che hanno ricreato il paesaggio, ma definirle sculture è, per la verità, riduttivo. Non si può guardare le sue creazioni, faticose e incredibili, senza emozionarsi, senza commuoversi.
Quest’uomo ha insistentemente perseguito un sogno, che ha inciso certamente solchi e conseguenze fisiche nel suo corpo. L’anima era già incisa da dolori incancellabili e dal disperato passato di lacerazioni, delitti e carcere, poi una lunga determinata espiazione. Il ritorno al suo paese è il sogno di ricostruirlo, lasciare qui e là le presenze del suo passaggio, le guglie, i parapetti, le scritte, il rivestimento di facciate e, segno dell’accoglienza e della sosta, i troni – sedile, piccoli, grandi, alti sempre di più, in ascensione verso l’alto. Ecco un’architettura di fatica, singolare nella piena accezione del termine, che con ossessiva e solitaria pratica costruttiva ci colpisce lo sguardo e la mente e va inevitabilmente a creare un’empatia che, davvero spero, provochi stupore e commozione in tutti quelli che percorrono le strade di Castelnuovo.
Quante pietre, quanti sassi, quanti pesanti sacchi caricati a mano e in dorso d’asino per ricoprire i tratti di questo paesaggio, quelli per fortuna restati? (perché un giardino bellissimo sotto il paese è purtroppo franato). Ma sotto il castello lo spazio dell’accoglienza, sedili in pietra e guglie, la sua casa (ormai b&b), è ancora lì, con le nicchie di pietra, la facciata e la loggia ruvida di migliaia di ciottoli di fiume, poi, al cimitero in discesa da via Silente, la bellissima tomba simulacro con le alte croci che, come dei dolmen, dominano il raccolto bel cimitero contadino. È un Gaudí cilentano, al maestro spagnolo lo accomuna un misticismo creativo che in lui diventa arte corporale. Anni fa, tanti, due amici cari mi fecero conoscere tutto questo, Guerino Galzerano era vivo e lo vedemmo salire dal basso del paese, già in parte franato, con un cane, in mano un nodoso bastone ricurvo. Era forte ma sbilenco, il suo corpo di sicuro in “trasformazione”, troppa fatica in quelle grandi mani color pietra. Ci portò a casa sua, mi colpì tanto che avesse ordinato e fatto fare la bara di legno, era lì, sotto il suo letto. Aveva già iniziato il suo “mausoleo”, lo visitammo, pensai che era un’idea meravigliosa farsi la propria tomba, un artista come lui aveva deciso e scelto fino alla fine della propria vita.